Il diario

Il lamento è un talento

C’è un problema che si pone ad un certo punto della maternità ed è quello del "riconoscimento sociale". Si presenta quando sei uscita dalla prima infanzia. A quel punto, chissà perché, gli altri pensano che i figli ormai vadano da soli. "Aaaahhh, ma sono grandi adesso" e tu pensi che è vero, che le tue figlie ormai hanno 9 e 12 anni. Però non è che si crescano da sole. Boh, comunque.

Si presenta quando tutti (misteriosamente anche chi genitore lo è o lo è stato), non colgono il fatto che se sei una mamma presente e disponibile, ciò non esclude che tu abbia un lavoro e pure un pochino impegnativo.

 

E che se riesci a far quadrare il cerchio e ad essere praticamente sempre dovunque in tempi brevissimi (alla conferenza stampa alle 11 del mattino ma anche a prendere le figlie a scuola per pranzo alle 12.30 ma anche ai colloqui con i professori tra le 11.45 e le 12.15 ma anche a fare la spesa nei 10 minuti che separano una cosa dall’altra, dopo aver preparato il pranzo alla mattina presto e preso appunti per il pezzo che scriverai nel pomeriggio) non è perché sei una che ha un sacco di tempo. No. Tutto questo riesci a farlo (diciamolo), perché sei una che ha una soglia delle depressione, del dolore, della salute e della capacità di rendersi disponibile anche con gli altri, che è di molto superiore alla media.

In altre parole, semplicemente, non ha l’attitudine a lamentarti. Ergo gli altri pensano che tu non abbia davvero nulla di cui lamentarti. E questo, che per molto tempo ho pensato fosse un pregio, inizio a vederlo come un difetto. "Impara a lamentarti anche tu, per la miseria! – mi dico – e la gente sarà più indulgente con te". Perché se mi guardo intorno, più o meno funziona così. Ed ecco qui il mio dubbio: sarà meglio insegnare alle mie figlie a non lamentarsi troppo e a tenere duro a scuola, sul lavoro e nella vita in generale, oppure sarà meglio insegnare loro l’arte del lamento strategico, giusto per mettere i puntini sulle "I"?

 

Ma si sa, il lamento è un talento: o ce l’hai o non ce l’hai. E lo è anche l’ottimismo. Bisogna solo scegliere per quale dei due  vogliamo pagare le conseguenze.

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