Bambini centrifugati
Intervista a Gaia Sacchi, autrice del libro Bambini Centrifugati edito da Red Edizioni.
ADM – Nel tuo libro parti dal fatto, positivo, che i genitori di oggi cercano di avvantaggiare i propri figli fornendo loro, oltre alle risorse economiche, anche quelle culturali. Ma qual’è la giusta misura per non centrifugare i nostri bambini con troppe attività extra-scolastiche?
GS – La giusta misura è quella che concede al bambino il tempo libero per dedicarsi ai propri interessi, alle proprie amicizie, dopo avere assolto ai doveri di studente. Ci sono bambini centrifugati che sono impegnati mediamente 4-5 giorni alla settimana, in attività di vario tipo dopo l’orario scolastico e che quindi devono far conto del carico della scuola, dei corsi e dei compiti. Quanto tempo rimane a questi bambini per giocare, stare con gli amici e con la famiglia? Proviamo a riflettere: noi riusciremmo, tutti i giorni dopo il lavoro, ad andare a nuoto, danza, scuola di lingua con tutti i relativi spostamenti? E poi i bambini hanno bisogno di stare coi coetanei, come è possibile coltivare delle amicizie se non si ha il tempo per farlo? Non sono contraria all’esercizio di attività extrascolastiche, che apportano benefici allo sviluppo psico-fisico e alla socializzazione valorizzando gli interessi, sono per la moderazione. Come insegnante ho potuto osservare, soprattutto in questi ultimi anni, la tendenza a riempire di attività tutta l’agenda settimanale dei bambini e ho visto gli effetti negativi di questo sovraccarico: eccessiva stanchezza, stress, difficoltà ad instaurare veri rapporti di amicizia e ad organizzare autonomamente un gioco. Da qui lo stimolo a scrivere qualcosa in proposito.
ADM – Capita che i figli diventino l’espressione della realizzazione personale di mamma e papà, con conseguenze disastrose. Oggi poi si tende ad essere competitivi, il proprio figlio deve avere il meglio ed essere il meglio.
Negli ultimi anni è cambiata radicalmente la struttura della famiglia, come conseguenza dell’evoluzione della società. Facciamo figli sempre più tardi, spesso uno solo o perché si preferisce concentrarsi su un unico figlio, dato il poco tempo e le esigue risorse a disposizione di genitori entrambi impegnati in attività lavorative o per difficoltà biologiche di concepimento, a causa della tardiva età. Su quel figlio, tanto desiderato, si concentrano le ansie e le aspettative di genitori, ma anche di nonni, per lui vengono spese ingenti somme, viziandolo, e gli vengono fornite numerose risorse culturali, affinché in futuro disponga di mezzi che gli consentano d’inserirsi precocemente ed efficientemente nel mondo del lavoro. Da qui la tendenza in auge, per es, d’iscrivere il bimbo di pochi mesi al corso d’inglese, oppure semplicemente di affiancarlo ad una baby sitter di lingua straniera, in modo tale che apprenda da subito una nuova lingua. Da sempre i genitori cercano di garantire un futuro ai figli, ma oggi sono cambiati la forma e gli strumenti.
ADM – Cosa intendi quando parli di bambino adultizzato?
GS – Bambino adultizzato è un’espressione utilizzata dallo psicologo americano David Elkind, riferita alla tendenza di sollecitare eccessivamente i bambini, aspettandosi che adottino delle modalità di relazione e di ragionamento proprie di bambini più grandi, bruciando le tappe. Secondo Elkin i bambini vengono considerati degli adulti in miniatura e come tali vengono investiti di eccessive responsabilità. Nella mia esperienza ho incontrato genitori che chiedevano ai loro piccoli di nemmeno tre anni: vuoi che ti iscriva alla scuola materna oppure preferisci stare con i nonni ancora per quest’anno? e anche: vuoi continuare a frequentare la scuola materna oppure l’anno prossimo t’iscrivo alle elementari? In entrambi i casi si sta chiedendo al bambino di decidere su un progetto riguardante la sua vita. Altrettanto grave è il commento che spesso segue ad una simile impostazione, tipo: l’hai scelto tu, perché adesso ti lamenti? Investire il bambino di eccessive responsabilità significa deresponsabilizzare il nostro ruoli di adulti. Un altro modo di creare bambini adultizzati consiste nel fornirgli oggetti status simbol dell’adolescenza, come il cellulare. Un bambino che frequenta la scuola elementare, sempre accompagnato da un adulto quando esce di casa, ne ha veramente bisogno? Si tratta sicuramente di bambini più svegli di quello che eravamo noi un tempo, ma sempre bambini sono. In tutto questo il paradosso è che da una parte vogliamo vedere i nostri bambini grandi, capaci di affrontare lo studio di una lingua a due anni e di cominciare a scrivere a quattro, dall’altra li riteniamo piccoli, tanto da levargli il pannolino dopo i quattro anni e insegnarli ad allacciare le scarpe a nove (o addirittura non insegnandoglielo affatto, comprandogli sempre scarpe con lo strappo).
ADM – Un bambino non ha diritto di annoiarsi ogni tanto?
GS – Il bambino ha il sacrosanto diritto di annoiarsi ogni tanto e noi abbiamo il dovere di garantirgli dei tempi vuoti, importantissimi per il suo sviluppo. Il tempo vuoto consente infatti di sviluppare la fantasia, programmare attività personali, sperimentare, riflettere, costruire ecc… Attitudini che tendono a scomparire quando un bambino è abituato a seguire attività programmate nel dettaglio. Provate ad osservare dei bambini che giocano in un cortile o in prato privo di strutture come altalene, scivoli e vedrete che sono purtroppo molto pochi quelli che si organizzano per giochi di squadra, per raccogliere pezzi di legno e costruire per es. un’arma, assemblandoli ad altri oggetti, come sassi, foglie. Non è solo colpa dell’estinzione dei vecchi cortili di casa, c’è anche il fatto che i bambini sono abituati ad interagire con adulti che organizzano tutto per loro: gli insegnanti di scuola, quelli dei corsi extrascolastici e perfino gli animatori delle feste di compleanno che predispongono tutto, dall’apertura dei regali al taglio della torta. Al contrario, quando sperimenta la noia, il bambino è indotto ad organizzare, sviluppando così la sua capacità creativa.
ADM – L’età giusta per iniziare a proporre attività extra-scolastiche al proprio bambino? E’ vero che prima si inizia più si valorizzano le sue attitudini?
GS – C’è chi iscrive il proprio figlio ad un corso di nuoto a quindici giorni dalla nascita, chi aspetta i tre anni, chi fa studiare pianoforte a partire dai due. Generalmente ci si affida al detto più piccolo è più facilmente apprende. In realtà la prima cosa da fare è considerare alcuni fattori fondamentali: la personalità del bambino, le sue eventuali carenze (fisiche/psicologiche), i suoi interessi. In linea di massima sarebbe opportuno aspettare almeno i quattro anni, quando il bambino ha già affrontato la prima esperienza della scuola materna, è in grado di comunicare e di rapportarsi ai coetanei. Se il bambino è terrorizzato dall’acqua perché sottoporlo ad una terapia d’urto a due anni? Può darsi che maturando questa paura venga meno da sola, in modo tale che poi lo si possa iscrivere tranquillamente ad un corso. Se a tre anni ancora non articola bene le parole nella propria lingua perché iscriverlo ad un corso di lingua straniera, che può aumentare le difficoltà? Non ci si può forse per il momento limitare ad ascoltare delle canzoncine, vedere qualche cartone animato oppure ascoltare mamma e papà che ripetono qualche parola in quella lingua? Se il bambino, in grado di esprimere le proprie preferenze, riferisce che quell’attività non gli piace per niente, perché insistere? C’è anche un altro aspetto da considerare: frequentare un corso significa rapportarsi a nuovi adulti e sottrarre del tempo alla relazione coi propri cari, genitori o nonni, di cui il bambino ha gran bisogno. Comporta una nuova fatica di inserirsi in un altro sistema di relazioni, oltre a quello familiare e a quello scolastico. Un bambino che ha passato la giornata al nido o alla scuola materna ha semplicemente bisogno di riposo e di coccole.
ADM – Come si devono comportare i genitori se il bambino chiede di provare un’attività che non ritengono adatta a lui?
GS – Spiegargli che secondo loro quell’attività non è adatta per lui, elencandogli i motivi, ma di fronte a una forte determinazione cedere. Se i genitori hanno forti dubbi, possono iscriverlo per un periodo breve, dopodiché potranno valutare insieme a lui se continuare o meno. Probabilmente il bambino li stupirà.
ADM – Il libro si chiude con una serie attività ludico-didattiche da fare con i propri bambini. La condivisione del gioco col genitore è un momento idilliaco per il bambino, è un suo diritto. E se mancano il tempo e le energie?
GS – E’ una cosa che va fatta, anche solo dieci minuti al giorno. Un momento magico e intimo condiviso col proprio bambino, gli rimarrà impresso nella memoria più dei discorsi fatti o dei regali ricevuti. Io ricordo ancora con molto piacere quegli attimi che mio padre dedicava a me e mio fratello, nonostante il lavoro lo portasse lontano da casa per parecchio tempo. Erano dei riti, come quando ci caricava su una coperta e ci trascinava per tutta la casa come fosse uno slittino. Il gioco crea complicità e rappresenta un momento in cui il bambino sente il genitore veramente vicino a sé, perché non si sta discutendo di cosa è successo a scuola, cosa fare il giorno dopo, non si stanno prendendo delle decisioni, ci si sta semplicemente divertendo. Inoltre il gioco è uno strumento valido per conoscere stato d’animo, pensieri, preoccupazioni del bambino, ed è quindi molto importante analizzare il gioco libero dei propri figli. Spesso si capisce di più dai giochi che dalle parole.