Cari genitori, contrordine: ora i SI’ aiutano a crescere

Una voce fuori dal coro, quella dello psicoterapeuta Renato Palma, dice che dire qualche sì in più ai propri figli li aiuterà a sviluppare meglio il senso della collaborazione e meno la tendenza al conflitto. E lo dice in un libro: I sì che aiutano a crescere (Edizioni ETS).

Cari genitori, contrordine: ora i SI' aiutano a crescere

L’EDUCAZIONE dei figli: i genitori più pessimisti dicono che ‘comunque si fa si sbaglia’, ma conoscere la materia e avere una linea di condotta coerente è comunque fondamentale. Non c’è nulla di peggio, per i figli, che genitori ondivaghi o umorali, un giorno severissimi e l’altro indifferenti. D’altro canto la tradizione dell’autorità assoluta del capofamiglia è stata seguita nell’ultimo secolo da pedagogie che a correnti alternate: dal dialogo al permissivismo, dalle regole al neo-autoritarismo. Lo psicoterapeuta Renato Palma che opera a Firenze, da tempo si occupa delle dinamiche di potere all’interno delle relazioni educative. Il suo ultimo libro, I sì che aiutano a crescere (Edizioni ETS), è fin dal titolo in evidente polemica con il famoso saggio del 2000 della pedagoga inglese Asha Phillips (I no che aiutano a crescere, Feltrinelli).

Dottore, lei ritiene che imporre regole rigide ai figli, pretenderne l’obbedienza, minacciare in caso contrario una punizione, sia un tipo di educazione destinata a creare persone infelici, incapaci di creatività.

Il problema non sono le regole, che sono assolutamente necessarie per una società che voglia garantire soprattutto i più deboli e quindi, i bambini. Dipende da quali sono le regole di cui stiamo parlando: la regola, per esempio, di usare la forza per educarli, fa sì che i figli crescano in un clima ‘sottilmente’ conflittuale, che entra poi a far parte della loro memoria relazionale. Per usare una semplificazione: è  evidente che litigare per educare produce il risultato di educare a litigare.

Spesso spieghiamo questa litigiosità con il loro carattere o con il particolare momento della loro vita.

Già, la temutissima adolescenza. L’idea che un piccolo conflitto con i bambini sia necessario, appunto per essere chiari sulle regole, è condiviso da tutta la pedagogia, nella certezza che questo conflitto durerà poco e sarà utile. La nostra esperienza ci dice invece che un conflitto sappiamo quando comincia, ma non possiamo sapere quando o se finirà.

Cosa succede ad un bambino quando non ha altra possibilità che obbedire?

Dal momento che disobbedire significa attrito, tensione, guerra, per evitare la lotta, quindi per essere considerato buono, il bambino non ha altra scelta che trasferire il conflitto dentro di sé.  Questo bambino entrerà nell’età adulta attraverso questo conflitto interiore: sarà un adulto chiuso ed intollerante, competitivo ed aggressivo se la lotta per controllarsi avrà successo. Amareggiato, insoddisfatto e deluso se invece si sentirà sopraffatto.

Dunque non imposizioni ma confronto. Questo produrrebbe quali conseguenze favorevoli?

Vede, scegliere lo ‘stare’ ed il ‘fare’ insieme, costruire collaborando la relazione, raggiunge contemporaneamente due obiettivi: il primo, vivere accanto ad individui cooperanti, con i quali è bello e piacevole passare del tempo. Il secondo facilitare il ruolo genitoriale, sottraendo a esso il carico di fatica e l’attrito, generati sempre dalla fretta e dall’ansia di educare. Gli obiettivi educativi che intendiamo raggiungere per il loro bene non devono essere mai la causa di un peggioramento della relazione che quando non è buona, si cristallizza ed è difficile da cambiare.

Nel suo libro lei sostiene che questo rapporto assolutamente paritario, dove le esigenze del bambino e poi del ragazzo hanno lo stesso ‘valore’ di quelle del padre, deve iniziare da subito, dalla nascita. Ma i bambini piccoli si cacciano spesso in situazioni pericolose: come si fa a non dire ‘no, questo non lo fare’ o ‘no, questo non metterlo in bocca’?

Un rapporto paritario si basa sull’idea che noi abbiamo dei bambini e sulla fiducia che abbiamo sulle loro capacità e competenze. I bambini sono sempre necessariamente diversi da noi. Possono esserlo in meglio o in peggio. La maggior parte di noi adulti pensa che lo siano in peggio; li pensa come piccoli selvaggi potenzialmente un po’ anarchici. Potrei dirle, che i bambini non fanno differenza di razza, non hanno molti dei nostri preconcetti relazionali. Certo hanno bisogno di fare esperienza, sono curiosi e, da non sottovalutare, vivono in un mondo che non è né pensato, né tanto meno fatto per loro. Pensi banalmente alla posizione delle prese elettriche, messe proprio all’altezza delle loro dita. Quando i bambini vengono a contatto con situazioni pericolose si può intervenire con divieti (che psicologicamente non funzionano perché la nostra mente non sa negare un’esperienza se prima non la fa) come di solito facciamo, oppure stare/essere insieme a loro, giocando, proteggendoli, garantendo loro la possibilità di fare esperienze senza farsi male fin quando non diventi chiaro anche a loro quello che costituisce per loro un pericolo.

La sua tesi è che un diverso tipo di educazione improntato all’affettività e al confronto creerebbe di conseguenza uomini diversi e dunque una società diversa, migliore da quella attuale.

Una società nella quale il conflitto, come metodo principale di relazione, non viene introiettato è sicuramente una società dove si fa meno fatica, si rende e ci si rende la vita più facile. Negli ultimi tempi si fa un gran discutere del paradosso della felicità: per quale motivo una società opulenta come la nostra crea così poca felicità, così tanto disagio? Forse la risposta sta proprio nel fatto che noi ci affanniamo tantissimo per dare ai nostri figli tutte le istruzioni per essere/rendersi infelici, cominciando a non farli mangiare quando hanno fame e a farli dormire quando non hanno sonno, per poi continuare con il tenerli ore fermi e seduti a scuola e così avanti, preda dell’idea che l’obbedienza e non la cooperazione sia il principale obiettivo educativo.

(fonte: Il Giorno del 3 giugno 2010 – autore: Rossella Martina)

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