Il giornale

“Hänsel e Gretel” – miglior albo illustrato

Un capolavoro di Lorenzo Mattotti. Se sia o no per bambini, a ognuno il proprio parere.

"Hänsel e Gretel" - miglior albo illustrato

Ancora Hans. Ancora Gretel. Ancora i fratelli Grimm. Ancora, e ancora, fino a quando ci saranno bambini abbandonati, sfruttati, violati. Fino a quando li lasceremo soli con le loro ansie, le loro paure, senza aiutarli a crescere, a essere indipendenti. Certo, non li abbandoniamo più nella foresta. Ma a non meno insidie vanno incontro, soli, davanti allo schermo del televisore o alla consolle della play station. E se la casetta di marzapane è diventata un MacDonald, non è certo colpa dell’immaginario dei nostri figli. Di nuovo una fiaba classica, con le paure e gli smarrimenti, le ansie e i turbamenti che non hanno età. Di nuovo, fino a quando ci saranno artisti come Lorenzo Mattotti, capaci con il segno di un pennello di rinnovare quelle emozioni, quei sentimenti.

Lorenzo Mattotti – illustratore

Nato nel 1954 a Brescia, Lorenzo Mattotti incomincia a pubblicare disegni su "Re Nudo" e una storia a fumetti su "La Bancarella" mentre ancora frequenta la facoltà di architettura. Nel 1976 dimostra già ampiamente le proprie capacità e il proprio personalissimo stile disegnando un episodio della vita di Casanova incluso in un volume a più mani edito dalla Mondograf. L’anno successivo realizza, su testi di Fabrizio Ostani, Alice Brum Brum, e nel 1978, su testi di Antonio Tettamanti, una riduzione a fumetti de Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e alcune storie sul settimanale "Secondamano". In seguito alterna ai fumetti (tra le sue cose più interessanti possiamo ricordare almeno Incidenti, Il signor Spartaco e Fuochi) un’intensa attività di illustratore per la rivista di moda "Vanity" oltre alla realizzazione di immagini per manifesti e numerose capagne pubblicitarie. LEGGI DI PIU’

Leggi l’INTERVISTA a Lorenzo Mattotti (fonte: www.mangialibri.com)

Il tuo raccontare per immagini non ha sempre i bambini come interlocutori. Cosa cambia nel tuo modo di disegnare quando ti rivolgi  a loro?

Quando faccio libri per bambini trovo una mediazione: cerco un linguaggio che penso sia corretto nei loro confronti. Non so se questo sia il meccanismo giusto per arrivare ad avere delle grandi illustrazioni. Poi anche quando mi rivolgo ai bambini, ogni scelta dipende da ciò che si vuol raccontare. Nella serie che si chiama Barbaverde e i Pittipotti, ad esempio, volevo raccontare la dolcezza, l’ingenuità, il gioco, spesso attraverso delle gag.  Volevo che passassero altre emozioni e non la paura come nel caso di Hänsel e Gretel, per cui ho lavorato sulle immagini in modo diverso. Con Pinocchio, invece, volevo rimanere nella tradizione dell’illustrazione per ragazzi, non avevo nessuna intenzione di fare un lavoro ‘artistico’. Ho sempre detestato gli illustratori che non si preoccupano dell’illustrazione, mirando solo a realizzare un’opera d’arte.

Eppure le tue illustrazioni non mancano di potenza…

La potenza dell’illustrazione deve emergere, riuscendo a restare nella tradizione dell’illustrazione, del raccontare con le immagini, pur sconfinando nel territorio dell’opera d’arte. In tal senso, mi ricordo di un Pinocchio realizzato da Schifano che era inaccessibile: l’idea pura di non narrazione. Credo che la differenza stia nel modo di porsi di fronte all’illustrazione: per me l’obiettivo è evocare e narrare, e credo che tutte le mie immagini siano evocative e narrative. Non ho mai pensato di sacrificare la narrazione in favore dell’opera d’arte.

Quale filtro hai usato nel disegnare Hänsel e Gretel?

Se avessi pensato al genitore, forse non avrei disegnato Hänsel e Gretel; quel pensiero mi avrebbe bloccato. Ma in quel caso volevo narrare la paura e nei disegni c’è la paura, la mia di quando ero bambino. Ho provato a lasciare la possibilità al bambino di guardarla in faccia, al sicuro nella sua cameretta, sotto le coperte. Sono immagini che mettono alla prova il bambino: “sarò capace di guardare?” “sarò capace di vedere?”. Porsi queste domande significa porsi nell’ottica dell’apprendimento. Significa avere il coraggio di fare.

Un modo di porsi dalla parte del bambino?

Sono prove di esperienza che ciascuno di noi dovrebbe superare, anche se non sempre si ha il coraggio di farlo. Non c’è sadismo né desiderio di tortura e credo che quelle immagini siano sufficientemente misteriose da poter essere guardate anche senza dovere per forza vedere. Non sono immagini malsane, permettono di sbirciare la paura.

Hai all’attivo anche una collaborazione con Michelangelo Antonioni, sia per te che per lui l’essenza delle immagini è fondante il processo di comunicazione…

È stata una esperienza interessante, in cui ho avuto la libertà di lavorare in modo completamente autonomo. Il parallelismo con Antonioni mi lusinga, dato che ho sempre amato il suo modo di lavorare, proprio in virtù della forza e dell’intensità delle sue immagini: dietro c’è una ricerca perfezionistica per trovare l’immagine e la situazione in grado di aprire la porta e raccontare altre cose. Guardandole si ha sempre l’impressione che ci sia un mondo parallelo oltre la storia; un mondo parallelo che passa attraverso le immagini e non attraverso le parole. Forse ha a che fare con la profondità della memoria: dentro c’è molto di più.

Che tipo di rapporto hai con il bianco e nero? Quale invece con il colore?

Con il colore posso mettermi in gioco e toccare certe corde, così come con il bianco e nero ne tocco altre. Nel caso di  Hänsel e Gretel, ad esempio, avevo paura di fare una foresta a colori, subito sarebbe diventata più spettacolare e meno diretta: avrebbe tirato in causa altre emozioni. Ci sono storie che già nella testa nascono in bianco e nero, ce ne sono altre che invece non possono fare a meno del colore; altrimenti sarebbe come se perdessero quel respiro di cui hanno invece bisogno. Ci sono, di contro, emozioni e sentimenti che ho la sensazione di riuscire a rappresentare solo con il pennino, farle a colori sarebbe come metterle a tacere. Anche la scelta della tecnica è funzione del tipo di emozione che si vuole che passi. E una scelta, non sempre razionale.

TORNA ALL’ARTICOLO SUL PREMIO ANDERSEN

Lascia un commento